Poco più di un anno fa abbiamo ricordato il 200esimo anniversario dell’“Essay on Shaking Palsy” di James Parkinson ed è stato affascinante ripercorrere, con tutta una serie di pubblicazioni ed eventi pensati per l’occasione e spesso affidati agli scienziati che vi hanno contribuito personalmente (vedere l’edizione 7 del 2017 del Journal of Parkinson’s Disease) gli anni dei traguardi successivi che hanno rivoluzionato l’approccio alla Malattia di Parkinson (MP), arricchendone la definizione, approfondendone la comprensione e scoprendone diverse possibilità di trattamento (Obeso et al., Mov Disord 2017, DOI: 10.1002/mds.27115).

Tra questi, una pietra miliare è stata sicuramente quella posta negli anni tra il 1957 e il 1960 con la scoperta della Levodopa (LD), che rimane ancora oggi il gold standard della terapia sintomatica della MP (Hornykiewicz, J Parkinsons Dis 2017, DOI: 10.3233/JPD-179004).

Tuttavia, il rapporto dei neurologi e degli stessi pazienti con la LD è divenuto col tempo complicato. A fronte di una indiscussa efficacia clinica, resta infatti controverso il come e il quando iniziare la LD nel paziente parkinsoniano. Con lo sviluppo dei farmaci dopamino-agonisti e inibitori delle monoaminoossidasi di tipo B negli anni ’80 e ‘90, la LD è diventata il farmaco a cui affidarsi in un tempo successivo in corso di malattia, in una strategia  di “risparmio” della LD diffusasi in conseguenza delle preoccupazioni crescenti circa il rischio di sviluppo delle complicanze motorie nei pazienti LD-trattati (PSG, Jama 2000 DOI:10.1001/jama.284.15.1931; Stocchi et al., Ann Neurol 2010 DOI: 10.1002/ana.22060). A sostenere un uso quanto più possibile tardivo della levodopa si è aggiunta inoltre la segnalazione, da parte di alcuni reports, di un potenziale effetto neurotossico della LD (Murer et al., Drug Saf 1999 DOI: 10.2165/00002018-199921050-00001).

In questo contesto, l’articolo appena pubblicato sul NEJM ad opera di Verschuur e colleghi (Verschuur et al., NEJM 2019 DOI: 10.1056/NEJMoa1809983), riporta i risultati del LEAP trial (la Levodopa nell’early MP), nato con l’obiettivo di risolvere le incertezze riguardanti l’effetto della LD sulla progressione della MP in fase precoce e superare, in particolare, le ambiguità residuate dallo studio ELLDOPA (Fahn et al., NEJM 2004 DOI: 10.1056/NEJMoa033447).

Il LEAP trial rappresenta un progetto multicentrico olandese che ha visto in un periodo di 5 anni il reclutamento di 446 pazienti con early MP, assegnati casualmente a 2 gruppi di trattamento:

  1. LD/Carbidopa (CD) 100/25 mg x 3 volte die per 80 settimane (early-start group)
  2. Placebo per 3 volte die per 40 settimane e passaggio successivo all’assunzione di LD/CD 100/25 mg x 3 volte die per le altre 40 settimane (delayed-start group)

L’outcome primario è stato individuato nella differente variazione tra i due gruppi dell’UPDRS score all’80esima settimana rispetto al rispettivo punteggio al baseline. Il principio del “delayed-start design”, già assunto dallo studio Adagio con indicazioni favorevoli per la Rasagilina al dosaggio di 1 mg/die (Olanow er al., NEJM 2009 DOI:10.1056/NEJMoa0809335), è quello di ricercare un potenziale effetto disease-modifyng del farmaco a seguito di un differente tempo di esposizione allo stesso. Un minore peggioramento di malattia nei pazienti che lo hanno assunto per più tempo indicherebbe un probabile effetto protettivo e non puramente sintomatico.

Pur con alcune limitazioni, questa differenza non è emersa per la LD nel LEAP trial, escludendo quindi la possibilità che la LD data precocemente possa essere capace di rallentare la progressione della MP.

D’altra parte, analisi secondarie non hanno fatto emergere differenze significative nel tasso di sviluppo di fluttuazioni e discinesie supportando un uso della LD anche precoce quando giudicata necessaria sulla base della clinica.

Giovanni Palermo, Pisa

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