Per la prima volta, uno studio ha mostrato chiari segni di malattia di Alzheimer in un animale selvatico: il delfino. Sia i delfini che gli umani hanno una lunga vita post-produttiva e il morbo di Alzheimer può essere uno dei costi della nostra longevità. 

Il gruppo di ricerca – composto da scienziati delle università di St. Andrews ed Edinburgh in Scozia, l’Università della Florida negli Stati Uniti e l’Università di Oxford in Inghilterra – ha rilevato Ie classiche alterazioni neuropatologiche (placche amoiloidee e grovigli neurofibrillari) del morbo di Alzheimer nel cervello di delfini trovati morti lungo la costa della Spagna. Ovviamente, non si è in grado di sapere se a tali reperti corrispondano (come nell’uomo) un deterioramento delle funzioni cognitive, ma tale scoperta apre interessantissimi scenari su quali siano I meccanismi biologici ed evoluzionistici legati alla formazione delle suddette alterazioni.

Infatti, gli esseri umani e alcune specie di cetacei, tra cui orche e delfini, sono tra le poche specie a vivere a lungo oltre la fine dei loro anni riproduttivi. Sebbene gli uomini e le donne possano vivere fino all’età di 110 anni, la fertilità (soprattutto quella femminile) diminuisce drasticamente intorno ai 40 anni. Alcune specie di cetacei hanno anche un periodo di vita post-riproduttivo che è lungo quasi quanto il loro periodo riproduttivo.

Il gruppo di ricerca suggerisce che la predisposizione alla malattia di Alzheimer e alla longevità umana e dei delfini sia, almeno in parte, il risultato di modificazioni del modo in cui l’insulina agisce su queste specie. L’insulina infatti innesca una complessa cascata chimica nota come “insulin signalling”. Studi scientifici hanno dimostrato che la restrizione calorica estrema nei topi e nei moscerini della frutta può alterare tale signalling e prolungare di tre volte la vita di questi animali. Questi studi hanno avuto una tale risonanza mediatica al punto che, nell`attuale ressa cibernautica, si possono trovare testimonianze di persone che cercano di allungare la propria vita attraverso la restrizione calorica.

Figo! – diremmo- abbiamo trovato l’elisir di lunga vita..

Però, eh.. c’è un però… che gli autori di questo paper – abilmente composto come le trame di un noir e pubblicato sulla prestigiosa rivista Alzheimer`s & Dementia – ci rivelano.

In primis un alterato signalling dell’insulina causa il diabete negli esseri umani e in altri mammiferi; e poi  c’è abbondanza di evidenze scientifiche che  dimostrano come la resistenza all’insulina renda gli uomini più inclini allo sviluppo della malattia di Alzheimer, attraverso il coinvolgimento di molecole tra cui GSK3 (glyc ogen synthase kinase-3) la cui iperespressione (indotta anche da alterazioni appunto del segnale insulinico) causa – nei modelli sperimentali – accumulo della proteina tau ed alterazioni della plasticita` sinaptica, che sono altre caratteristiche della malattia di Alzheimer.

Quinidi, i ricercatori ritengono che negli esseri umani e nei cetacei (unici mammiferi a sviluppare alterazioni pre-diabetiche)  che hanno una lunga vita post-riproduttiva, il signalling dell’insulina si sia evoluto per funzionare in modo simile a quello prodotto artificialmente dalla restrizione calorica nei topi,  prolungando la durata della vita oltre gli anni fertili, ma lasciandoci anche esposti al diabete e alla malattia di Alzheimer.

Non solo, recenti scoperte hanno dimostrato che anche I gatti sviluppano alterazioni neuropatologiche sovrapponibili a quelle osservate negli umani, e poichè molti gatti vengono castrati – aumentando quindi automaticamente il loro span post riproduttivo – questo porta ad un aumento di incidenza di obesita` che e` fattore di rischio di diabte.

Tutto torna, o almeno sembra. Se tale teoria evoluzionistica risultasse corretta, l’alterazione del signalling insulinico avrebbe aumentato la longevità negli esseri umani decine di migliaia di anni fa; e quindi non c’è bisogno di adottare una dieta estremamente ipocalorica nella speranza di prolungare la tua vita: l’evoluzione lo ha già fatto!

Articolo completo al link: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1552526017337172?via%3Dihub

 

Francesco Di Lorenzo, Roma PTV

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