Negli ultimi anni la ricerca scientifica ha raggiunto gran bei traguardi per quanto concerne la raffinatezza diagnostica nella malattia di Alzheimer (AD), tuttavia non si puo’ dire lo stesso per quanto concerne le novità in campo farmacologico, difatti si è assistito e si continua ad assistere a trial farmacologici poco soddisfacenti, se non del tutto inefficaci.

È notizia di pochi giorni fa, la pubblicazione sulla nota rivista Journal of Alzheimer’s Disease di un nuovo studio, condotto dal gruppo di ricerca della McGill University guidato dal Dr. Claudio Cuello, circa l’efficacia dell’uso del litio, a dosaggio subclinico ed in una formulazione tale che consenta agilmente il passaggio della barriera ematoencefalica, nei confronti dell’avanzamento della patologia di Alzheimer.

Il Litio è parte della pratica medica ormai da quasi 50 anni, indiscussa l’efficacia nel trattamento del disturbo bipolare, tuttavia negli anni sono stati diversi gli studi che ne hanno indagato l’efficacia terapeutica nei pazienti affetti da demenza; questo prodigioso metallo porta con sé purtroppo una ridotta finestra terapeutica ed una lunga di lista di possibili effetti collaterali, che lo rendono tutt’altro che maneggevole. Ad ogni modo non mancano le evidenze scientifiche a favore del suo utilizzo nel trattamento delle demenze, e recentemente è stato pubblicato un grosso studio di popolazione Nord-Europeo che ha analizzato gli effetti delle microdosi di litio presenti nell’acqua potabile.

Questo gruppo di ricerca canadese già nel 2017 aveva pubblicato importanti risultati circa l’efficacia della somministrazione di microdosi di Litio (hanno identificato con NP03 la formulazione da loro usata), risultata in grado di inattivare GSK-3beta e ridurre l’espressione di BACE1, mediatori chiave nella patogenesi dell’AD; successivamente nel 2018 NP03 aveva registrato un ulteriore successo, dato che era risultato in grado di ridurre il danno ossidativo e la neuroinfiammazione allo stadio precedente la formazione delle placche amiloidi. 

Chiaramente questi studi si sono avvalsi della sperimentazione animale e specificatamente topi transgenici che esprimono il gene che codifica per la proteina precursore dell’amiloide umana (APP) e sono portatori di mutazioni associate a forme di AD early-onset rapidamente progressivo. 

La novità di questo studio sta nel fatto di aver ottenuto promettenti risultati su topi in uno stadio in cui la malattia si era già espressa nella sua forma clinica e la formazione delle placche amiloidee era già in corso. I risultati descrivono che NP03 è risultato in grado di:

  1. indurre un recupero della memoria procedurale
  2. ridurre la perdita delle connessioni colinergiche
  3. ridurre i livelli di amiloide sia a livello plasmatico che quantitativamente a livello delle placche
  4. ridurre lo stress ossidativo ed al contempo la neuroinfiammazione
  5. ridurre l’attività dell’attività di BACE1

Che sia davvero la chiave di volta per la gestione terapeutica dell’AD? Per rispondere a questo quesito dovremo aspettare che la ricerca faccia il suo corso. 

Sicuramente il leader del progetto, dr. Claudio Cuello, ha fatto proprio un bel gesto dichiarando che il merito di questo lavoro è di Edward Wilson, giovane neuroscienziato all’interno del suo gruppo di ricerca. L’umiltà rende forti. Un bell’esempio, e ce ne servono di questi giorni.

Inoltre, il 25 di Gennaio le prime riviste scientifiche hanno posto l’attenzione su questa importante pubblicazione, proprio il giorno successivo alla triste vicenda che ha coinvolto un gruppo di ricercatori italiani. Difatti il Consiglio di Stato ha deciso di bloccare lo studio sulla cecità proposto da due docenti dell’Università di Torino ed approvato ai più alti livelli di controllo scientifici, avvalorando l’accusa di un’associazione animalista. Lo Stato che si sostituisce alla Scienza. Dopo tutta la fatica che comporta la ricerca oggi giorno, quei due ricercatori hanno dovuto subire uno stop ai loro lavori, ma anche ricevere svariate minacce di morte. Pertanto, credo sia doveroso da parte della comunità scientifica, che nel piccolo questa rivista rappresenta, esprimere la vicinanza alla ricerca ed ai ricercatori coinvolti nella vicenda.

Referenze:

  • McGill University. “Can lithium halt progression of Alzheimer’s disease? Researchers’ findings show that may be the case.” ScienceDaily. 25 January 2020: www.sciencedaily.com/releases/2020/01/200125090727.htm
  • Edward N. Wilson, Sonia Do Carmo, Lindsay A. Welikovitch, Hélène Hall, Lisi Flores Aguilar, Morgan K. Foret, M. Florencia Iulita, Dan Tong Jia, Adam R. Marks, Simon Allard, Joshua T. Emmerson, Adriana Ducatenzeiler, A. Claudio Cuello. NP03, a Microdose Lithium Formulation, Blunts Early Amyloid Post-Plaque Neuropathology in McGill-R-Thy1-APP Alzheimer-Like Transgenic Rats. Journal of Alzheimer’s Disease, 2020; 73 (2): 723 DOI: 10.3233/JAD-190862
  • Nunes MA, Viel TA, Buck HS. Microdose lithium treatment stabilized cognitive impairment in patients with Alzheimer’s disease. Curr Alzheimer Res 2013; 10: 104–107.
  • Kessing LV, Gerds TA, Knudsen NN, Jorgensen LF, Kristiansen SM, Voutchkova D, Ernstsen V, Schullehner J, Hansen B, Andersen PK, Ersboll AK (2017) Association of lithium in drinking water with the incidence of dementia. JAMA Psychiatry 74, 1005-1010. doi: 10.1001/jamapsychiatry.2017.2362

Luca Cuffaro, Università di Palermo

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