Quest’anno in Europa circa 300000 persone verranno ricoverate in ospedale per un’emorragia cerebrale spontanea. Di questi, circa il 60% morirà entro un anno, mentre il restante avrà un’elevata probabilità di sviluppare una disabilità moderata-severa. Di fronte a tali dati, i clinici hanno da sempre dimostrato un vivo interesse nell’individuare i fattori in grado di influenzare la prognosi dei pazienti in termine di mortalità e di disabilità.

Gli studi epidemiologici hanno individuato due elementi che, in particolare, influenzerebbero la prognosi: le dimensioni dell’ematoma, sia in termini di grandezza all’esordio che di crescita della stessa nel tempo, e i valori elevati di pressione arteriosa.

I due parametri sarebbero in stretta correlazione e alcuni lavori, tra i quali lo studio pilota INTERACT-1 pubblicato nel 2008, suggerivano che ridurre la pressione arteriosa nelle prime ore dopo l’evento avrebbe facilitato la stabilizzazione delle dimensioni dell’ematoma. I dati della letteratura lasciavano però ancora aperti alcuni interrogativi: quali effetti su mortalità e disabilità avrebbe portato una riduzione della pressione arteriosa nei pazienti con emorragia cerebrale spontanea? È sicuro “aggredire” l’ipertensione nelle ore successive all’evento? È possibile definire un valore pressorio ideale che garantirebbe una migliore prognosi per il paziente?

Per rispondere a tali interrogativi, venne condotto uno studio pubblicato nel New England Journal of Medicine nel 2013: lo studio INTERACT-2 (Intensive Blood Pressure Reduction in Acute Cerebral Hemorrhage Trial). INTERACT-2 è uno studio prospettico, multicentrico, randomizzato ed open-treatment che ha coinvolto un totale di 2794 pazienti provenienti da 21 nazioni. Per l’inclusione nello studio, oltre alla diagnosi di emorragia cerebrale spontanea, erano necessari valori di pressione arteriosa all’esordio compresi tra 150 e 220 mmHg e un’insorgenza della sintomatologia entro sei ore. I criteri di esclusione comprendevano valori di GCS al di sotto di 5, la presenza di un’emorragia estesa e l’esecuzione di un intervento neurochirurgico per l’evacuazione della massa ematica. I pazienti venivano dunque suddivisi in due gruppi: nel primo l’ipertensione arteriosa veniva trattata secondo le linee guida allora vigenti (PA sistolica < 180 mmHg), nel secondo si tentava un trattamento intensivo, tale da mantenere la pressione arteriosa sistolica al di sotto di 140 mmHg. Questi valori dovevano essere raggiunti entro un’ora e mantenuti per una settimana. Gli investigatori non ponevano limiti ai curanti sulla scelta dei farmaci da usare per controllare i valori pressori. A tre mesi, si confrontavano i due gruppi su mortalità, disabilità (punteggi compresi tra 3 e 5 secondo la modified Rankin scale), qualità di vita (scala EQ-5D) e comparsa di eventi avversi quali ipotensione severa, eventi ischemici cerebrali e cardiaci. I risultati dello studio sono netti: trattare in modo intensivo o standard la pressione arteriosa era indifferente in termini di mortalità (rispettivamente pari al 11,9% e 12%, OR 0.99, CI 0.79-1.25, p 0.96). Si osservavano però dei vantaggi per quanto riguardava la disabilità (OR 0.87, CI 0.77-1.00, p 0.04) e su alcuni aspetti della qualità della vita, in particolare l’indipendenza nelle attività della vita quotidiana (OR 0.79, CI 0.67-0.94, p 0.006). Le analisi per sottogruppi non hanno mostrato differenze negli outcome per età, etnia, gravità del quadro clinico all’esordio o precocità dell’intervento.

A partire da questi risultati, lo studio ATACH-2 (Antihypertensive Treatment of Acute Cerebral Hemorrhage) pubblicato nel 2016 si era proposto di valutare gli effetti della riduzione della pressione arteriosa sistolica in tempi più precoci e in pazienti con valori pressori all’esordio più elevati rispetto all’INTERACT-2. Il trial includeva soggetti sottoposti alla randomizzazione entro 4,5 ore dall’evento e con PA sistolica oltre 180 mmHg. Un’altra novità era rappresentata dall’obiettivo da raggiungere con la terapia: piuttosto che determinare un valore soglia, gli investigatori hanno definito un range entro i quali condurre i pazienti nella prima ora di trattamento (110-139 mmHg Vs 140-179 mmHg). Inoltre, per ridurre la variabilità dovuta ai trattamenti usati, era ammesso un solo farmaco ipotensivo, cioè la nicardipina. I criteri di esclusione, in particolare le dimensioni dell’ematoma e il GCS score all’esordio, erano simili a quelli precedentemente usati in altri trial. Lo studio reclutò 1000 pazienti equamente distribuiti (500 Vs 500) tra il trattamento intensivo e quello standard. I risultati del lavoro non smentivano quelli del precedente per quanto riguarda la mortalità: essere aggressivi nel ridurre la pressione arteriosa non aumentava le chance di sopravvivenza del paziente (6.6% Vs 6.8%, RR 0.97, CI 0.60-1.57, p 0.97). Inoltre, contrariamente a quanto riscontrato nell’INTERACT-2, non c’era alcun guadagno in termini di disabilità o di qualità di vita. Il lavoro inoltre, contrariamente a quanto osservato in precedenza, aveva osservato che l’ematoma aveva le stesse probabilità di crescere del 33% entro 24 ore in entrambi i gruppi (18.9% Vs 24.4%, RR 0.78, CI 0.50-1.03, p 0.08). A tre mesi dal trattamento intensivo, infine, i pazienti erano più soggetti a complicanze, in particolare quelle renali (25.6% Vs. 20.0%, RR 1.30, CI 1.00-1.69, p 0.05). L’analisi per sottogruppi non mostrava alcun vantaggio in nessuna categoria di pazienti. È possibile che i risultati sopra descritti fossero dipesi almeno in parte dalla scelta di includere pazienti con pressione arteriosa sistolica molto elevata all’esordio e che quindi sarebbero partiti già “svantaggiati” in termini di outcome. L’“harming” nei pazienti sottoposti a trattamento intensivo, inoltre, potrebbe essere stato influenzato sia dalla nicardipina, farmaco la cui nefrotossicità è nota, sia dall’ipoperfusione sistemica più marcata.

In conclusione questi studi hanno dimostrato l’inefficacia della riduzione intensiva della pressione arteriosa nelle fasi precoci dell’ictus emorragico spontaneo. Inoltre sollevano molti dubbi sul ruolo svolto dalla pressione arteriosa nella fisiopatologia di tali eventi (causa o conseguenza?) e ci spingono a ridefinire il ruolo degli altri fattori di rischio, ad esempio la pressione arteriosa diastolica o l’edema perilesionale. Non per ultimo, è bene domandarsi l’utilità di qualunque trattamento condotto nelle prime ore, in quanto è possibile che il massimo del danno dovuto ai fattori di rischio si estrinsechi ben prima della maggior parte degli atti medici messi in opera.

Andrea Di Paolantonio, Roma Cattolica

 

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