Ovunque voi siate, e qualsiasi cosa stiate facendo in questo momento, possiamo essere d’accordo che se state leggendo queste parole siate, in una qualche misura, coscienti (in quale stato è prerogativa soltanto vostra). Dunque, mentre continuate a fare quello che stavate facendo mentre date un’occhiata a questo articolo, vi invito a fare un esperimento mentale: pensate a cosa significhi esattamente essere coscienti – che caratteristiche sono necessarie per definirvi tali? Esistono variazioni tra diversi “stati” (se così possono definirsi le differenze tra il sonno e la veglia per esempio, ma ci arriviamo con calma)? Con quali strumenti potreste indagare questi stati?

Non è così semplice – se ne parla da decenni, ma ancora le teorie, più che sfoltirsi e delinearsi, sembrano proliferare in un caos quasi inesplorabile a chi vi si approccia per la prima volta. Per questo, il lavoro di Seth e Bayne, uscito qualche mese fa su Nature Neuroscience, si prefigge di fornire un’infarinatura linguistica e concettuale, riassumendo brevemente i punti cardine delle varie teorie della coscienza, per dimostrare i punti di ricerca da percorrere nei prossimi decenni.

Innanzitutto, partiamo dalla prima affermazione semplice di poche righe fa: se dormiamo (mettiamo che non sogniamo nemmeno) non siamo coscienti, se stiamo leggendo questo articolo lo siamo  – fin qui tutto lineare. Per descrivere la coscienza, quindi, innanzitutto devo definire dei cambiamenti nello stato di veglia (meglio descritto in lingua inglese con il termine arousal) e nel comportamento: queste grosse variazioni che coinvolgono in generale tutto il sistema vengono definite stati globali, e comprendono, tra i molti, l’essere svegli e reattivi nei confronti del mondo, il sonno, la sedazione, lo stato minimo di coscienza, e (forse) gli stati psichedelici.

Ma questo non basta: anche mentre si è svegli (si è nello stesso stato globale) è diverso leggere un articolo dal bere una tazza di caffè – ed è qui che entrano in gioco gli stati locali, definiti dalla differenza nelle caratteristiche qualitative che li compongono (percezioni, cognizioni, emozioni, intenzioni) che possono essere anche lette alla luce delle loro proprietà fenomenologiche (Com’è leggere un articolo?), o funzionali (A cosa serve leggere un articolo? Perché il sistema si è evoluto per arrivare a saper leggere un articolo?). In più, se è vero che per leggere devo essere cosciente, mentre lo faccio magari sto adottando degli aggiustamenti posturali involontari e inconsci: esistono, quindi, azioni che sono necessariamente coscienti (leggere), e altre che non possono esserlo (il riflesso vestibolo oculare che ci permette di tenere gli occhi fissi sulle lettere). Infine (e poi prometto che la smetto), alcune informazioni entrano ed escono dalla coscienza: non posso, con i due occhi, leggere due parole diverse – anche se queste fossero presentate singolarmente a ciascun occhio con degli occhiali particolari, sarò cosciente solo di una per volta. Perché, dunque, gli stati esistono e hanno determinate proprietà? Perché gli oggetti possono essere in certi stati? Come si passa da uno stato all’altro?

Una buona teoria della coscienza deve saper spiegare almeno queste osservazioni.

Se è vero che di teorie ne esistono, e molte, è anche possibile raggruppare i principali filoni di pensiero in quattro gruppi: teorie di alto ordine (high order theories, HOTs), teorie dello spazio di lavoro globale (global workspace theories, GWTs), teoria dell’informazione integrata (integrated information theory, IIT) e, infine, teorie di rientro e processi predittivi.

High order theories

Le HOTs vedono la coscienza come meta-rappresentazione (sulla cui estensione e significato si giocano le differenze tra le diverse teorie della classe): se l’input dall’ambiente interno ed esterno viene elaborato e rappresentato a un primo livello (stimoli luminosi →immagine corticale), la coscienza è definita come rappresentazione delle rappresentazioni (immagine corticale → esperienza di presa visione). Queste teorie spiegano molto bene le differenze tra stati locali (un contenuto è cosciente quando è attivamente meta-rappresentato in quello specifico momento), meno quelle tra stati globali (cosa significa essere sveglio?) e vedono nei correlati neurali la corteccia anteriore, che si pensa capace di associare le differenti rappresentazioni e accoppiarle anche ai sistemi di risposta all’input (comportamento, cognizione…) che esulano dall’esperienza di coscienza in sé.

Global workspace theories

Immaginate un teatro: tutto è buio – spettatori, registi, personale dietro alle quinte non sono visibili. A un certo punto, delle luci illuminano gli attori: la capacità di creare luce è la coscienza. Fuor di metafora, le GWTs presuppongono l’esistenza di un network (identificato in varie estensioni nella rete di connessioni associative fronto-temporali) capace di “accendere la luce”, cioè trasmettere informazioni a doppio senso a dei processori locali di segnali (ad es. le cortecce sensitive), in modo tale che gli input elaborati in questi processori abbiano accesso a tutta la rete, che li collegherà a funzioni come attenzione, memoria, valutazione, report verbale. Come fanno questi network a iniziare le interazioni con i processori locali? Mediante un processo definito “ignizione”: in modo stocastico (come quando si generano dei pensieri autonomamente mentre vi distraete leggendo) o in relazione a stimoli esterni o interni (scorrere su NeuroMag e vedere un interessantissimo articolo?), che portano il network in uno stato tale da comunicare con i processori locali. Anche qui, non c’è accordo tra le teorie su quale sia il network, e, se è vero che descrivono molto bene i meccanismi di selezione degli stati di coscienza e la relazione con altre funzioni superiori, anche queste teorie faticano a dare una spiegazione agli stati globali e al perché dell’esistenza delle proprietà fenomenologiche.

Integrated information theory

La IIT parte da assunti totalmente diversi: pone innanzitutto degli assiomi su quelle che sono le proprietà fenomenologiche (ad es. la coscienza ha esperienze integrate – l’articolo che sto leggendo e il contesto attorno sono percepiti nello stesso momento, nella stessa scena – o altre, come la specificità, l’esclusione di altri scenari ecc.) e da questi deriva dei modelli matematici in grado di descriverli: se un sistema fisico non riducibile a sottosistemi con le stesse caratteristiche è in grado di soddisfare questi assiomi, la coscienza è una proprietà intrinseca di quel sistema. Lo stato globale è definibile con un indice, che, molto alla lontana, caratterizza la capacità di integrare le informazioni all’interno di quel sistema, mentre gli stati locali sono ascrivibili alla generazione di una “struttura concettuale”, una forma generata da un subset (“complesso”) del sistema fisico: all’interno del mio sistema “cervello” che è cosciente perché integra le informazioni come descritto dalla teoria, la differenza tra leggere un articolo o fare una passeggiata è data dal diverso grado di coinvolgimento e di processamento delle informazioni che passa da tutti i complessi (visivi, motori, interocettivi). Anatomicamente, le strutture coinvolte sembrano, differentemente dalle altre teorie, quelle posteriori (network associativi parietali).

Questa teoria sembra riuscire a spiegare meglio sia gli stati globali che quelli locali partendo da proprietà fenomenologiche, ma ancora è da definire in modo chiaro l’interazione con le altre funzioni superiori.

Teorie di rientro e di processi predittivi

Il sistema nervoso è noto anche in altri contesti (come quello motorio) di avvalersi di sistemi top down per la regolazione del segnale proveniente dalla periferia (rientri): alcuni di questi sistemi sono anche predittivi (per esempio, dell’outcome del movimento) e possono essere confrontati con il segnale di errore periferico per la correzione di funzioni più fini. Se l’esperienza di coscienza dipendesse da alcuni di questi sistemi, si spiegherebbero molto bene gli stati locali (meno quelli globali), in quanto dipendenti dall’input top-down: l’esperienza percettiva potrebbe modificare lo stato di coscienza creando via via discrepanze in questi modelli predittivi, che li porterebbero a modificarsi nel tempo.

Secondo queste teorie, le cortecce sensitive in loro stesse potrebbero essere sufficienti a creare la coscienza, interagendo con i network fronto-parietali per le funzioni superiori (ragionamento, decision-making)

Nessuna teoria riesce ad essere comprensiva, finora, di tutti gli aspetti della coscienza – e, sfortunatamente, nessuna di queste teorie è stata davvero provata o smentita nel corso del tempo. Cosa ci manca? Quali sono i problemi? Quali sono gli strumenti che potrebbero servirci nei prossimi anni?

1.     La possibilità di misurazione: finora possiamo accedere alla coscienza soltanto chiedendo al soggetto dell’esperimento di riportare delle risposte a determinate domande. Questo pone molti fattori confondenti, che sono alla base, per esempio, del fatto che, sebbene la IIT proponga un network posteriore, la predictive network variabili diffusi, mentre le HOTs e le GWTs prevedano network anteriori, ancora non sia possibile propendere per un determinato circuito: come facciamo a sapere che i network anteriori non “sporchino” il risultato attivandosi nel momento di dover recuperare le informazioni della coscienza che in realtà è stata “generata” altrove?

2.     La creazione di modelli predittivi quantitativi: con alcune eccezioni, molte di queste teorie sono ancora molto narrative, mancando di elementi quantificabili capaci di predire cambiamenti in stati fisiologici e patologici. Su questo fronte, lo sviluppo di modelli computazionali a partire da concetti speculativi può essere sicuramente di aiuto.

3.     Un cambio di paradigma: dalla spiegazione di fenomeni in esperimenti ben precisi (ad es. confrontare soggetti in stato di sonno e di veglia con un metodo di misurazione e/o stimolazione), alla tendenza a creare teorie più generalizzabili a vari stati di coscienza.

Ancora sono molte le controversie, e per ora nessuna teoria è sufficientemente descrittiva della grande, fondamentale domanda: che sia per curiosità scientifica, o per rispondere alla richiesta di vita dei nostri pazienti, il dibattito deve andare avanti, e stanno emergendo sempre più strumenti per farlo. E chissà, magari arriveremo a un punto in cui vedremo con occhi diversi essere colti da un pensiero imprevisto, sorprenderci a leggere, o sorseggiare un caffè.

https://www.nature.com/articles/s41583-022-00587-4

Kora Montemagno
Università degli Studi di Milano
kora.montemagno@studenti.unimi.it

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