Ci sono diverse figure senza di cui il mondo neurologico non sarebbe lo stesso, quello stesso mondo che è stato stravolto dagli ultimi due mesi di emergenza legata al COVID. In molti ospedali i reparti di neurologia sono stati sacrificati alla necessaria riconversione per far fronte all’impennata di ricoveri. Abbiamo chiesto di raccontare questi cambiamenti ad una delle infermiere storiche di un grosso reparto di neurologia, del Policlinico Gemelli di Roma per la precisione. Una persona timida e, per essere onesti, abbiamo dovuto un po’ insistere, ma il momento era importante e meritava di essere raccontato.

Ho sentito parlare di COVID la prima volta a gennaio. Mi sembrava una storia lontana che difficilmente ci avrebbe raggiunto, una notizia da vedere in TV e da lasciare lì, mentre noi continuavamo a vivere nel mondo reale. Si avvertiva una certa pericolosità ma se non succede a casa tua non riesci ad avvertire un vero pericolo. Non avrei mai pensato che la mia realtà sarebbe stata stravolta da lì a poco da quella “cosa”. Poi la situazione poco alla volta è cambiata perché quella “cosa” è arrivata da noi, prima con i cinesi ricoverati allo Spallanzani e poi in Lombardia. Ormai tutti ne iniziavano a parlare ma la storia non era conosciuta, ci si scherzava, anche molti esperti parlavano di influenza. E ancora dormivamo. Ma poi è arrivato da noi e non abbiamo neanche avuto il tempo di accorgercene.

Lavoro in neurologia da 38 anni in un grande reparto di 38 posti letto che condividiamo con la medicina interna. Sono contenta della mia routine, mi rende serena. Un pomeriggio mi recavo a lavoro mentre l’infezione si diffondeva al nord Italia. Entrai in ospedale e per la prima volta sentii il fiato sul collo, ma davvero forte. Ricordo anche la data: era il 15 marzo. La caposala ci disse rapidamente che ci sarebbero stati dei cambiamenti in reparto per far fronte all’emergenza ed in meno di 24 ore uno dei più grandi reparti di neurologia d’Italia era diventato un reparto di malattie infettive. Era una bella giornata ma me lo ricordo come un brutto momento, un po’ come quando ti comunicano un lutto inaspettato. Eravamo presi alla sprovvista. Quel giorno ci fu il “panico”, come si dice a Roma.

Per tutta la durata del turno i pazienti precedentemente ricoverati vennero trasferiti in altri reparti e già quella notte la trasformazione in un reparto di malattie infettive fu completa.

I colleghi che facevano notte iniziarono il loro turno con tutti i letti vuoti e la mattina dopo c’erano 11 pazienti ricoverati, tutti “sospetti” ma 4 di loro poi divennero dei “positivi”, ed ora non ci sono più. Nel corso del giorno successivo il reparto era interamente pieno. Non avevo mai vissuto dei ritmi così, dei veri ritmi da guerra.

La situazione all’inizio fu drammatica. Per tutta la mia carriera mi sono sempre sentita in controllo, capivo quando le cose andavano bene e quando andavano male, mi aspettavo la fine delle persone e sempre mi ero sentita in qualche modo preparata.

Ma col COVID non eri mai preparata.

I pazienti erano chiusi dietro porte anti-contagio. Ricordo l’angoscia che provai la prima volta che aprendo la porta per fare il giro trovai un paziente morto. Nella mia carriera c’erano stati tanti brutti momenti ma quella volta sentii le gambe mancare. Non era giusto perché non era pronto, non era un paziente che muore da un momento all’altro. Era andato via e non aveva visto e salutato nessuno. Era stato semplicemente inghiottito dall’ospedale. E così sparì.

Nei giorni successivi l’impotenza era cresciuta. Le persone continuarono velocemente a “sparire”, senza neanche avere il tempo di costruire i rapporti umani che sono la base del lavoro e della vita di un infermiere.

Dopo pochi giorni sono finalmente arrivati i tablet. Capimmo subito che il contatto era fondamentale e la tolleranza nei confronti di quelle che una volta erano bollate come lamentele crebbe moltissimo.

Una signora una notte, forse erano le 3, iniziò a piangere. Non stava malissimo, ma voleva videochiamare la figlia, ne sentiva il bisogno. Ci costrinse a chiamare e così andai da lei. Rimasero a piangere al telefono per quasi un’ora. E poi si addormentò. Io tornai nella nostra stanza. Al giro delle 6 non c’era più. Senza alcun senso apparente. Era andata via secondo delle regole che non avevamo minimamente capito.

Per tutto il periodo dell’emergenza ci sentivamo soli: vorresti accarezzare qualcuno ma le porte sono chiuse. Nel nostro reparto normalmente si ride, si sta insieme anche nella sofferenza ma col COVID no.

In tanti anni non mi era mai capitato di non accorgermi che stavi perdendo un paziente. I pazienti ammalati di COVID andavano via e non avevamo il tempo di realizzare. Non si rideva.

E poi era tutto estremamente snervante: io sono un’infermiera vecchio stile. Le vene le sento, non le vedo, e solo fare un prelievo che avrei fatto ad occhi chiusi mi metteva difficoltà ed un senso di tensione da stare male. Per ogni procedura, anche la più banale, c’era il doppio guanto, la visiera appannata, la tuta pesante. Poi il faticoso momento della sanificazione. Era davvero tutto snervante

L’apice di questo incubo era rappresentato dalla preparazione dei corpi dei defunti. La salma veniva chiusa col lenzuolo sulla testa e sui piedi e poi veniva cosparsa con una soluzione al cloro, il Gemini, dall’odore forte come la candeggina, che ti faceva quasi stare male. E poi i necrofori arrivavano col loro sacco, senza che noi o alcun parente potessimo più vedere quella persona. Non c’era più il tempo per piangere con mamma o papà, toccarlo e baciarlo per rivedere i momenti insieme e metabolizzare il momento.

L’ospedale risucchiava e se vedevi il buio non c’era più scampo. Tutto finito.

Il turno finiva e tornavo a casa. Non sapevamo cosa fare con le nostre famiglie. Ci mettemmo d’accordo con tutte le colleghe di smettere di dormire con altre persone.

Vivevo la vita in ospedale seguendo la divisione tra percorso pulito e percorso sporco, la parte vicina alle stanze che era esclusiva di chi si vestiva. Portai questa divisione a casa. Ho vissuto tutto il periodo isolata in una cameretta e provavo a stare il più possibile lontano da mio marito e dal figlio che vive con me. Creai una sorta di parte sporca attorno a me. Per quanto debba ammettere che da noi non sono mai mancati dispositivi di protezione, per due mesi mi sono sentita una bomba batteriologica, un pericolo per i miei. Solo alla fine dell’emergenza ho potuto abbracciare i miei due figli.

Intorno a metà aprile la situazione cambia. Nell’ultima fase, delle persone che un mese prima non ce l’avrebbero fatta, iniziano a migliorare fino ad uscire fuori. Ci sentivamo come se fosse resuscitato un parente. Per i primi pazienti dimessi avevamo fatto foto, eravamo commossi, abbiamo provato delle sensazioni poche volte provate nella mia vita. La malattia è molto strana e la nostra sensazione è che, rispetto ai primi tempi, non so per quale ragione, non so perché, fosse un po’ più morbida, o forse meglio trattabile. Forse eravamo semplicemente diventati un po’ più bravi. Comunque ci sentivamo sollevati.

Fino al 10 di aprile avevamo sempre avuto almeno un decesso al giorno. Poi a metà aprile ci fu il primo giorno senza decessi, e poi due giorni consecutivi senza decessi. Tornavi a casa un po’ più leggera con la speranza che il virus stesse cambiando o stesse cambiando il mondo e che comunque ne stavamo uscendo.

Il ritorno alla normalità ci è sembrato strano. In reparto ci sono ancora delle stanze destinate ai pazienti “grigi”, i sospetti, che sono isolati in stanze singole, ma possiamo dire che il vecchio reparto è tornato. Il primo giorno vidi pazienti fuori dal corridoio e l’istinto fu quello di sgridarli e di chiedere di tornare in stanza.

Di questo periodo ricorderò i legami forti che si sono formati con le persone che ti erano accanto, colleghi, medici, OSS, chiunque fosse coinvolto. Poche cose riescono a saldare i legami tra persone come il condividere delle relazioni complicate.

Tornare a lavorare con le divise a maniche corte mi ha fatto quasi piangere. Un gesto così normale ma prima proibito. Cosa mi porto dietro di questo incubo? Toccare le persone, accarezzarle. Questi gesti sono fondamentali nella relazione tra paziente ed infermiere ed è cruciale nel momento della sofferenza: ecco, da oggi in poi apprezzerò diversamente questi gesti così banali ma così importanti.

Stafania Buccella, Roma (editing by Redazione)

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