Il trauma cranico (TBI) rappresenta una delle principali cause di morbilità e mortalità nel giovane adulto: in Italia si stima ci siano circa 90.000-100.000 casi di TBI all’anno, fra questi si calcolano 12.000-15.000 morti e 15.000-20.000 con esiti invalidanti gravi (con una prevalenza di circa 700.000-800.000 pazienti). Gli esiti a lungo termine sono molteplici e, fra questi, i disturbi psichiatrici ne rappresentano una parte importante.

Tra le patologie che sono correlate in maniera più significativa all’evento traumatico si possono includere i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia ed i comportamenti aggressivi; ai precedenti bisogna aggiungere anche le alterazioni comportamentali e della sfera emotiva ed i disturbi cognitivi che possono spaziare dal mild cognitive impairment all’encefalopatia traumatica cronica.

l TBI rappresenta dunque un importante fattore di rischio per depressione anche con anamnesi negativa per disturbi dell’asse timico, aumentando di quasi il doppio il rischio sia per i traumi lievi che per quelli moderati-gravi. Tuttavia, se è presente una precedente diagnosi di depressione il rischio risulta ulteriormente aumentato. Frequenti sono inoltre l’ideazione suicidaria ed il suicidio in particolar modo nei traumi più severi o nei soggetti più giovani di 21 anni o più vecchi di 60. Purtroppo, attualmente non esistono studi di classe I sull’uso di antidepressivi sebbene ci siano delle evidenze preliminari sulla loro efficacia (la classe di scelta è rappresentata dagli SSRI). Bisogna prestare particolare attenzione all’inizio della terapia, perché in tale finestra temporale possono aumentare l’agitazione e l’ansia, ed al tipo di farmaco usato, poiché alcuni antidepressivi possono aumentare il rischio di crisi epilettica (ad esempio il bupropione).

Il disturbo d’ansia generalizzato e gli attacchi di panico risultano inoltre più frequenti nei soggetti colpiti rispetto alla popolazione generale mente il disturbo post-traumatico da stress risulterebbe aumentato solo tra la popolazione militare. I comportamenti aggressivi (sia fisici sia verbali) sono associati a lesioni che alterano il circuito orbitofrontale. Attualmente come possibilità d’intervento vi sono la terapia comportamentale ed ambientale e quella farmacologica (maggiore efficacia hanno la carbamazepina, il valproato, il gabapentin e l’oxcarbazepina).

I disturbi psicotici invece compaiono tardivamente, dopo circa 4 anni, e sono caratterizzati principalmente da allucinazioni e deliri nonostante sia mantenuto un buon livello di insight. Si segnala inoltre come invece l’abuso di sostanze risulti ridotto dopo TBI.

Risulta infine importante sottolineare come il TBI, soprattutto se ripetuto, può determinare un aumentato rischio di patologie neurodegenerative. Le cause sono eterogenee e coinvolgono la deposizione di tau, beta-amiloide e TDP-43, la neuroinfiammazione, la degenerazione assonale, la degradazione della sostanza bianca, la perdita neuronale e la distruzione della barriera emato-encefalica. Le patologie associate sono numerose: malattia di Alzheimer, morbo di Parkinson, sclerosi laterale amiotrofica. In conclusione il trauma cranico non si limita agli effetti immediati od alla prima ospedalizzazione ma può essere a tutti gli effetti considerata una condizione cronica con sequele a lunga distanza anche di carattere psichiatrico.

Andrea Plutino, Ancona

 

Bibliografia:
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Hesdorffer, Dale C. et al. “Long-term psychiatric outcomes following traumatic brain injury: a review of the literature.” J Head Trauma Rehabil. 24.6 (2009): 452-9
Jeffrey, Nicholl et al. “Neuropsychiatric Sequelae of Traumatic Brain Injury” Semin Neurol 29.3 (2009): 247-255

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