Il signor Mario, 86 anni, è ricoverato in stroke unit per ictus ischemico acuto dovuto ad occlusione carotidea sinistra. Il suo attuale punteggio NIHSS è di 23 e lo score Fugl-Meyer è di 14, indicativa di danno molto grave. E ora? Se si riuscirà a superare la fase acuta sarà possibile tornare ad un grado di indipendenza simile a quello precedente l’evento acuto, o almeno a livelli accettabili?

Nel numero di ottobre 2017 di Lancet Neurology è stata pubblicata una review che indaga il ruolo dei fattori clinici, neurofisiologici e radiologici predittivi di outcome motorio dopo un ictus attualmente disponibili in letteratura.

La maggior parte degli lavori analizzati conferma che il deficit motorio valutato entro una settimana dopo l’ictus è il principale fattore in grado di prevedere il recupero funzionale. Una maggiore disfunzione a 7 giorni è invariabilmente associata ad un peggiore outcome

In ambito riabilitativo la principale scala per misurare il deficit motorio è la scala di Fugl Meyer che valuta i movimenti delle singole articolazioni, i movimenti sinergici, la velocità di movimento, la dismetria, l’atassia ed i riflessi. Numerosi studi hanno dimostrato che la scala può essere utilizzata per predire il recupero che, per motivi biologici, avviene in modo proporzionale.

Valutando il recupero con questa scala ci si accorge che rispetto ad un massimo recupero motorio valutato a due anni, il paziente tipicamente recupera circa il 48% nel primo mese, il 63% a 3 mesi, il 78% a 6 mesi. Dopo questo periodo il miglioramento delle funzioni motorie continua, ma in modo ridotto. Studi preliminari dimostrano che il modello del recupero proporzionale si può applicare anche ai deficit di linguaggio e all’attenzione visuo-spaziale, per cui il recupero a 3 mesi è circa il 70% del totale possibile.

Per quanto riguarda il ruolo dell’EEG, deboli evidenze suggeriscono che la perdita di coerenza nella banda di frequenza alfa e un aumento della frequenza delta rilevate entro 2 settimane dall’ictus sono associate ad un outcome negativo. La coerenza nella banda di frequenza beta tra la corteccia motoria primaria ipsilaterale e il resto della corteccia correlava positivamente con un miglioramento di un punteggio composito delle prestazioni motorie agli arti superiori a 3 mesi dopo ictus.

Le evidenze cumulative indicano anche che la presenza di MEP nell’arto superiore paretico subito dopo l’ictus è in grado di prevedere una migliore ripresa della funzione motoria. Lo stato del MEP potrebbe rivelarsi un biomarker particolarmente utile per i pazienti con insufficienza motoria inizialmente grave, perché può rilevare la funzionalità motoria dei percorsi discendenti anche in assenza di attività motoria volontaria. Tuttavia, l’assenza di risposte non necessariamente indica che il paziente avrà un outcome negativo. Il potere predittivo negativo relativamente basso del MEP riflette la limitazione principale della stimolazione magnetica transcranica, cioè che è per gran parte limitata allo studio della corteccia motoria primaria e dei suoi output. La stimolazione magnetica transcranica non può essere facilmente utilizzata per testare la funzione di aree diverse dalla corteccia motore primaria, comprese la corteccia premotoria o vie motorie, come il tratto reticulospinale e rubrospinale.

Il neuroimaging può superare queste limitazioni valutando anche le reti sensoriali. L’integrità strutturale della corteccia e dei percorsi che interessano la sostanza bianca possono essere valutati con le sequenze T1 e DWI. La DWI misura parametri come anisotropia frazionaria e diffusività assiale che correlano con le perturbazioni nell’organizzazione microstrutturale. In generale, una maggiore disgregazione delle vie discendenti è associata ad un peggiore outcome. Tutti gli studi condotti sull’argomento confermano che l’integrità dei pathways passanti per la sostanza bianca correla con il recupero motorio più del volume della lesione ischemica. La risonanza funzionale può fornire misure dell’attività e della connettività corticale mentre i pazienti sono a riposo o mentre svolgono un compito. In generale, quanto più nel resting-state i modelli di attivazione e di connettività funzionale corticale ottenuti a seguito di un task motorio sono normali (cioè, più simili a quelli visibili in controlli sani) migliore sarà l’outcome. I pazienti con migliore outcome motorio sono quelli che, sia nel resting-state che nel task motorio in fase acuta, hanno una maggiore attività a livello della corteccia motoria primaria ipsilesionale, nella corteccia premotoria ipsilesionale e nella corteccia cerebellare controlesionale.

Allo stato attuale non è semplice utilizzare questi biomarkers nella pratica clinica ma, l’aumentato bagaglio terapeutico, gli avanzamenti nella riabilitazione, le richieste dei pazienti e dei loro familiari, imporrà una sempre maggiore attenzione nella ricerca dei parametri in grado di predire il futuro.

 

Francesco Iodice, Roma Cattolica

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