Il disturbo dello spettro della neuromielite ottica (NMO) è una malattia infiammatoria autoimmune del sistema nervoso centrale (SNC) che colpisce principalmente il nervo ottico e il midollo spinale. Il decorso della malattia è caratterizzato dalla possibile insorgenza di frequenti e gravi ricadute che contribuiscono ad incrementare la disabilità nel tempo. La maggior parte dei pazienti è sieropositiva per la presenza di anticorpi contro l’acquaporina 4 (AQP4-IgG) (proteina di membrana integrale che funge da canale dell’acqua negli astrociti). In questo gruppo di pazienti, l’evento patogenetico critico è il legame dell’AQP4-IgG all’acquaporina astrocitaria, che causa danni cellulari tramite attivazione del complemento, citotossicità cellulare dipendente da anticorpi (ADCC) e apoptosi. Tuttavia, alcuni pazienti sono AQP4-IgG negativi e potrebbero avere anticorpi contro la proteina MOG. Altri ancora sono sieronegativi per entrambi i tipi di autoanticorpi.

L’immunosoppressione cronica è fondamentale per prevenire le ricadute e quindi prevenire l’accumulo di disabilità. Nuove prove sul meccanismo immunologico coinvolto nella NMO hanno portato a considerare il Rituximab (RTX) un’opzione terapeutica. Il Rituximab è un anticorpo monoclonale chimerico diretto contro l’antigene CD20, espresso sulla superficie cellulare di tutte le cellule della linea B, ad eccezione delle cellule pro-B e delle plasmacellule. Bassi livelli di espressione di CD20 si rilevano anche sulla membrana di una piccola percentuale di cellule T; circa il 3-5% dei linfociti T esprime, infatti, il CD20. L’eliminazione delle cellule CD20 dal circolo ematico è alla base dell’effetto terapeutico nella NMO. In particolare, le cellule CD20 + CD27 + (cellule B della memoria) potrebbero avere un ruolo critico nella differenziazione delle cellule che secernono anticorpi (plasmacellule) e nella produzione di anticorpi anti-AQP4. La deplezione delle cellule B CD27 + può, infatti, influenzare negativamente la produzione di anticorpi anti-AQP4 da parte delle plasmacellule a breve emivita. Uno studio del 2005 ha dimostrato che il Rituximab è efficace nel prevenire le ricadute nei pazienti affetti da NMO. Da quel momento, l’efficacia del Rituximab è stata riportata in diverse case series e studi retrospettivi. Sulla base di queste evidenze, le linee guida della European Federation of Neurological Societies del 2010 e le raccomandazioni del gruppo di studio sulla NMO del 2014 hanno proposto il Rituximab come trattamento di mantenimento di prima linea per la NMO.

Negli anni successivi, diversi studi hanno confermato l’efficacia del Rituximab nel prevenire le ricadute in pazienti affetti da NMO e hanno esplorato diversi schemi terapeutici. Nonostante ciò, ad oggi, l’identificazione di biomarcatori per stratificare i pazienti e adattare a ciascuno lo schema infusionale e il dosaggio ottimale è ancora un “unmet need”. 

La necessità di reinfondere il paziente nel tempo per prevenire le ricadute è evidente. Queste sono spesso molto gravi e possono peggiorare notevolmente la disabilità del paziente. Per questo motivo sarebbe una scelta sconsiderata curare il paziente quando le manifestazioni cliniche riaffiorano. Da qui lo sforzo per identificare biomarcatori che consentirebbero di reinfondere i pazienti prima che i sintomi della malattia si manifestino.

Numerose evidenze mostrano una maggiore efficacia clinica quando la reinfusione di Rituximab avviene prima del ripopolamento dei linfociti B. La pratica clinica comune consiste nella somministrazione del farmaco (375 mg / m2 / settimana per 4 settimane o 1000 mg infusi una o due volte con un intervallo di 2 settimane tra le dosi) ogni 6 mesi (schema fisso). Data l’estrema variabilità interindividuale del decorso della malattia, con questo approccio si rischia di esporre i pazienti a una terapia non sufficientemente efficace o ad un trattamento eccessivo. Di conseguenza, devono essere identificati biomarcatori affidabili per una migliore stratificazione del trattamento ripetuto con Rituximab per soddisfare le esigenze dei pazienti con NMO.

Dopo il trattamento con Rituximab, il livello di anticorpi anti-AQP4 diminuisce e rimane a livelli bassi per alcuni mesi. Il ritrattamento ritardato causa un aumento dei livelli di anticorpi, che è spesso accompagnato da una ricaduta. Nonostante ciò, non esiste una stretta correlazione tra i livelli di anticorpi e le ricadute che spesso si verificano anche in assenza di un aumento dei livelli di AQP4. Pertanto, non è utile utilizzare il livello di anticorpi AQP4 come biomarcatore per prevedere le ricadute e personalizzare la strategia di reinfusione. Gli studi che si sono concentrati sui linfociti B sono più interessanti per le implicazioni cliniche che hanno avuto. Precedenti studi hanno cercato di monitorare i livelli delle cellule CD19 + al fine di prevedere e prevenire le ricadute. Questi studi hanno utilizzato una soglia diversa per guidare la terapia, tutti arbitrari in quanto non erano basati su un razionale biologico o su evidenze cliniche (0,1% dei linfociti, 1% delle cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) o 10 cellule / μL). A prescindere dalla soglia scelta, tutti gli studi hanno evidenziato il verificarsi di un numero considerevole di recidive con livelli di linfociti CD19 + al di sotto della soglia. Pertanto, anche questo approccio si è rivelato inefficace in quanto esponeva i pazienti a un rischio maggiore di ricaduta, con conseguenze drammatiche.

Successivamente, Kim e colleghi hanno esplorato l’utilità del monitoraggio delle cellule B CD27 + (cellule B della memoria) per guidare il ritrattamento. Hanno anche monitorato le cellule B CD19 + per confrontare la cinetica di ricostituzione di queste due popolazioni. I loro studi confermano l’inefficacia nel monitorare le cellule B CD19 + per guidare il ritrattamento, poiché più del 60% delle recidive riportate nella popolazione oggetto dello studio si sono verificate in pazienti con conte di cellule B CD19 + inferiori a 10 cellule / μL o meno dello 0,5% di PBMC, che sono stati considerati come uno stato di deplezione delle cellule B in studi precedenti. Inoltre, gli autori hanno mostrato che la deplezione delle cellule B CD27 + nel sangue periferico si associa a una drammatica risposta clinica al Rituximab. In uno studio osservazionale retrospettivo con follow-up di 5 anni, su 100 pazienti il 70% raggiungeva una condizione libera da ricadute e il 96% dei pazienti mostrava un miglioramento o una stabilizzazione della disabilità per un periodo mediano di 67 mesi. I risultati clinici ottenuti da Kim e colleghi sono stati superiori a quelli osservati in studi precedenti (ad esempio, ritrattamento con programma fisso o ogni volta che le cellule CD19 + B> 1% delle PBMC). Pertanto, sebbene anche in questo caso le soglie scelte fossero assolutamente arbitrarie (CD27 + <0,05% di PBMC durante i 2 anni iniziali, <0,1% di PBMC successivamente), i risultati degli studi hanno suggerito la rilevanza di questo valore come soglia per guidare lo schema reinfusionale. Tuttavia, nonostante il trattamento con Rituximab, una deplezione insufficiente o un ripopolamento rapido inaspettato delle cellule B della memoria è stato associato al verificarsi di ricadute. Inoltre, hanno rivelato che la ricostituzione delle cellule B CD19 + non è necessariamente proporzionale alle cellule B di memoria CD27 +. La ricostituzione delle cellule B della memoria CD27 + al di sopra del target terapeutico si verificava anche con un livello di cellule B CD19 + inferiore allo 0,1% delle PBMC. Quindi anche se le cellule B CD19 + si trovano in uno stato di deplezione (<1% delle PBMC), la ricostituzione delle cellule B della memoria al di sopra della soglia potrebbe portare a una risposta clinica incompleta.

Questi risultati sono stati confermati da Cohen e colleghi che hanno confrontato l’efficacia di due schemi terapeutici (1000 mg ogni 6 mesi o 1000 mg ogni volta che le cellule CD27 hanno raggiunto> 0,05% delle PBMC) in 40 pazienti, in 1 anno di follow-up. Gli autori hanno dimostrato che monitorare le cellule B di memoria CD19+ CD27+ consente, nella maggior parte dei casi, di ridurre il numero di infusioni di Rituximab somministrate senza perdita di efficacia rispetto allo schema fisso. Inoltre, identificavano un 10% dei pazienti che necessitava di somministrazioni di Rituximab con una frequenza superiore ad una ogni 6 mesi, a causa della ricostituzione precoce delle cellule B CD27+. Questi pazienti sarebbero stati classificati erroneamente come “non responder” con un biomarcatore diverso, come il CD19. Più recentemente, uno studio italo-svizzero su 119 pazienti con NMO ha confrontato l’efficacia dei tre regimi di mantenimento (1000 mg ogni 6 mesi OPPURE 375 mg / m2 ogni volta che le cellule CD27 hanno raggiunto> 0,05% delle PBMC per i primi 2 anni e > 0,1% delle PBMC negli anni successivi OPPURE 375 mg / m2 ogni volta che CD19 + raggiunge l’1% delle PBMC). Sebbene la significatività non sia stata raggiunta, nessun paziente infuso secondo il livello di CD27 ha presentato recidive durante l’intera durata del follow-up e, da notare, i pazienti sono stati reinfusi a una frequenza inferiore (cioè con intervalli di infusione più lunghi) e con un dosaggio di infusione ridotto. 

Nessuno degli studi discussi sopra ha confrontato l’efficacia di questi regimi tra pazienti sieropositivi AQP4-IgG e pazienti sieronegativi AQP4-IgG. Durozard e colleghi lo hanno fatto in una popolazione composta da 16 pazienti con anticorpi MOG e 29 con anticorpi AQP4. All’inizio dello studio (gennaio 2012) lo schema infusionale è stato individualizzato secondo lo schema proposto da Kim e colleghi: reinfusione eseguita solo quando la frequenza delle cellule B di memoria raggiungeva lo 0,05% PBMC. Durante lo studio, 7 recidive si sono verificate dopo 6 mesi (intervallo medio di 7 mesi dopo l’ultima infusione) in 4 pazienti AQP4-Ab positivi nonostante il monitoraggio mensile delle cellule B CD27. Gli autori hanno concluso che “probabilmente queste ricadute non si sarebbero mai verificate se in questi pazienti fosse stato utilizzato il classico schema di somministrazione a intervalli di 6 mesi non monitorato”. Pertanto, nell’agosto 2016, hanno deciso di modificare il protocollo: da quel momento i pazienti sono stati trattati con un intervallo non superiore a 6 mesi; prima di 6 mesi se le cellule CD27 + raggiungevano la soglia definita (> 0,05% PBMC) ma mai oltre i 6 mesi, indipendentemente dalle cellule CD27+. La maggior parte dei pazienti positivi per AQP4-Ab sono stati reinfusi prima di 6 mesi secondo il ripopolamento delle cellule CD27+, proteggendoli dalle ricadute e solo 2 recidive si sono verificate nell’intera popolazione di pazienti positivi per AQP4-Ab dopo la modifica dello schema di trattamento.

Al contrario, quasi il 40% dei pazienti positivi alla MOG ha riportato una ricaduta. Questi risultati sono in linea con studi precedenti che hanno mostrato un’efficacia limitata di RTX nel disturbo MOG-Ab +. Le ricadute si sono verificate con un intervallo medio di 2,6 mesi e ciò ha suggerito che le recidive si siano verificate indipendentemente dall’effetto biologico del Rituximab. In effetti, non è stata trovata alcuna differenza nella percentuale di cellule CD27 + dopo l’inizio di Rituximab tra pazienti MOG-Ab- positivi con e senza recidiva. Questi risultati suggeriscono che i meccanismi immunologici che portano a ricadute nell’ NMO anti-MOG è indipendente dalle cellule B. Pertanto, i risultati di Durozard e colleghi argomentano contro l’efficacia dello schema infusionale proposto da Kim. Nonostante il targeting delle cellule CD27 + sia prezioso per identificare i pazienti a rischio di ricaduta precoce (prima dei 6 mesi dopo l’ultima infusione), non è sicuro attendere il ripopolamento delle cellule B di memoria dopo i 6 mesi. Inoltre, i risultati di Durozard hanno rivelato che il targeting delle cellule B della memoria per guidare la terapia è utile solo per i pazienti positivi agli anticorpi anti-AQP4. Al contrario, nei pazienti positivi anti-MOG, le recidive si sono verificate indipendentemente dalla cinetica delle cellule B della memoria.

Per quanto riguarda il dosaggio ottimale, lo studio italo-svizzero citato prima ha confrontato il regime di induzione consistente in due infusioni da 1000 mg a distanza di 2 settimane con il regime di induzione costituito da quattro infusioni da 375 mg / m2 ogni settimana per 4 settimane. Considerando il tempo alla prima ricaduta e la frequenza degli attacchi, il regime di induzione consistente in due infusioni da 1000 mg a distanza di 15 giorni ha mostrato una performance migliore rispetto alle quattro infusioni da 375 mg / m2 ogni settimana per 4 settimane. Un precedente studio italiano ha rivelato che 1000 mg due volte a distanza di 2 settimane possono essere più efficaci di 375 mg / m2 a settimana per 4 settimane per trattare la NMO. Tuttavia, in entrambi gli studi gli schemi infusionali non erano controllati tra i due protocolli di induzione. Precedenti esperienze cinesi hanno suggerito la possibilità di una terapia a basso dosaggio con Rituximab (100 mg di infusione per 3 settimane consecutive quando le cellule B CD19 + superavano l’1%). Tuttavia, non è possibile confrontare i risultati di questi studi con quelli sopra descritti per numerosi aspetti, come le diverse caratteristice dei pazienti, il diverso intervallo di reinfusione, il diverso biomarcatore e la diversa soglia scelta per guidare lo schema infusionale.

Infine, dovremmo considerare che un crescente numero di evidenze ha fatto luce su possibili fattori responsabili di una variabilità interindividuale nella risposta agli anti-CD20. Alcuni autori hanno riferito che una maggiore superficie corporea (BSA) o un indice di massa corporea (BMI) più elevato sono associati a una ricostituzione più rapida delle cellule B. Inoltre, la citotossicità cellulo-mediata da parte delle cellule Natural Killer, un meccanismo critico di eliminazione delle cellule B, potrebbe essere influenzata dal polimorfismo del recettore 3A del frammento C gamma delle immunoglobuline (FCGR3A o CD16). Una sostituzione valina (V) / fenilalanina (F) alla posizione 158 di FCGR3A è il polimorfismo che influenza l’affinità dei recettori nel legame delle IgG umane, e l’allele 158F ha un’affinità inferiore per le IgG umane (e quindi anche la porzione FC del Rituximab). Kim e colleghi hanno dimostrato che il genotipo FCGR3A potrebbe essere un fattore predittivo per la risposta al Rituximab e che l’influenza di questo polimorfismo sulla risposta al Rituximab nei pazienti con NMO potrebbe essere superata da strategie di trattamento individualizzato.

In conclusione, sebbene ad oggi lo schema infusionale e il dosaggio ottimale di Rituximab in NMO non sia stato ancora determinato, i risultati presentati suggeriscono che:

– Il dosaggio iniziale più efficace è di due infusioni da 1000 mg a due settimane di distanza.

– Per i pazienti portatori dell’allele FCGR3A 158F (fattore di bassa sensibilità al Rituximab) o a più alto rischio di ripopolamento (BMI più alto o BSA maggiore) un dosaggio più elevato potrebbe essere più efficace.

– Le cellule CD27 + B sono il biomarcatore più efficace nel guidare il ritrattamento nei pazienti positivi per AQP4-IgG.

– Per i pazienti a più alto rischio di recidive, lo schema infusionale del trattamento dovrebbe essere basato sul monitoraggio del ripopolamento delle cellule CD27 + fino a 6 mesi; successivamente dovrebbero essere reinfusi indipendentemente dal livello di CD27 +.

Attualmente mancano ancora dati su come guidare il trattamento nei pazienti negativi per AQP4-IgG (cioè MOG-IgG positivi o doppi negativi). Inoltre, è necessario uno sforzo maggiore per identificare quei fattori in grado di influenzare l’efficacia della terapia anti-CD20 al fine di adattare il dosaggio e lo schema infusionale raggiungendo il rapporto rischio / beneficio più favorevole.

Referenze

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Gianmarco Abbadessa

Università degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli”

gianmarcoabbadessa@gmail.com

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