Marco è un signore di 48 anni, imprenditore di successo, costantemente impegnato a lavorare, con una grande passione per il jogging. Appena può, ama rilassarsi facendo una corsetta nel parco. Le cose sono sempre andate benissimo fino a domenica scorsa quando, nel corso di una mattina particolarmente calda, ha sentito la gamba di destra cedergli e si è accasciato al suolo. Alfredo, il suo compagno di allenamento, gli ha chiesto cosa stesse succedendo, ma Marco non aveva più il controllo della parola: pensava quello che voleva dire ma dalla sua bocca non uscivano parole ma suoni confusi. Dopo poco tempo è arrivata un’ambulanza che ha portato Marco in ospedale…
Quando il neurologo lo ha visitato in pronto soccorso il disturbo afasico di linguaggio andava già meglio ma ancora muoveva male la gamba ed il braccio di destra. Rapidamente è stata eseguita un’Angio-TAC che non mostrava niente di particolare. Marco è stato allora sottoposto a trombolisi endovenosa. Nel corso del trattamento ha gradualmente riacquistato l’uso della parola e anche la gamba andava meglio.
Nel corso del successivo ricovero in stroke unit sono state escluse importanti anomalie pressorie, aritmie, occlusione e dissecazione dei grossi vasi. L’ecocardiogramma transesofageo ha mostrato la presenza di una pervietà del forame ovale e, dopo somministrazione di soluzione salina, è stato osservato il passaggio di 25 microbolle dall’atrio destro a quello di sinistra nel corso dei primi 3 cicli cardiaci. Lo shunt è stato dunque inquadrato come grande ed è stato associato ad un’ulteriore anomalia chiamata aneurisma dell’auricola dell’atrio destro.
Il forame ovale pervio è un difetto interatriale del cuore dovuto alla mancata chiusura dopo la nascita del septum primum e del septum secundum del cuore che, alla fine, determina la presenza di un orifizio anomalo che mette in comunicazione l’atrio destro con l’atrio sinistro.
Nel numero del New England Journal of Medicine del 14 settembre 2017 sono stati pubblicati 3 attesissimi trials clinici che indagavano il ruolo della chiusura della pervietà del forame ovale, il PFO, nella prevenzione secondaria dell’ictus ischemico.
Il trial REDUCE ha paragonato la chiusura del PFO associata alla migliore terapia antiaggregante possibile contro la sola terapia antiaggregante. Nel trial, che ha coinvolto ben 63 centri in USA ed in Europa ed è stato sponsorizzato dalla azienda americana Gore, produttrice di prodotti biomedicali, 664 pazienti sono stati randomizzati a ricevere chiusura del PFO con occlusori Helex o Cardioform oppure a mantenere la sola terapia medica. I pazienti arruolati avevano un’età compresa tra 18 e 59 anni ed avevano avuto un’ictus definito come “criptogenetico” nei 180 giorni precedenti l’arruolamento. Nei 90 giorni successivi all’arruolamento i pazienti venivano sottoposti a chiusura del difetto interatriale con device diverso a seconda del braccio di arruolamento ed erano sottoposti ad uno stretto monitoraggio dell’attività cardiaca nel periodo successivo. Gli endpoint, misurati a 6, 12, 24, 36, 48 e 60 mesi, erano nuovi ictus clinicamente evidenti oppure ischemie silenti, definite come nuove lesioni alla RM in sequenza T2 di almeno 3mm. Tra i 441 pazienti sottoposti a chiusura di PFO si erano verificati 6 ictus clinicamente evidenti, mentre i casi erano stati 12 tra i 223 pazienti trattati solo con terapia antiaggregante (HR 0.23; p 0.002). Allo stesso modo, anche le ischemie clinicamente silenti erano più frequenti nel gruppo della terapia medica che in quello sottoposto a chiusura del PFO (20/223 casi contro 22/441 casi con HR 0.51; p 0.004). I dati sulla safety mostravano però una maggiore incidenza di nuovi casi di fibrillazione atriale o flutter nei 441 pazienti sottoposti a chiusura del PFO (29 casi, 6.6% del totale) nei confronti del gruppo della terapia medica (1 caso, 0.4% del totale). I casi di aritmia erano generalmente transitori ma un paziente ha avuto un nuovo ictus ischemico.
Nello stesso numero del NEJM gli investigatori del trial RESPECT pubblicavano i risultati del follow-up a 5 anni sull’efficacia della chiusura del PFO nei pazienti con stroke criptogenetico.
Il trial originale, pubblicato nel 2013 e finanziato dalla St. Jude Medical, produttore dell’Amplatzer PFO Occluder, aveva visto l’arruolamento di 980 pazienti di età compresa tra i 18 ed i 60 anni con diagnosi di stroke criptogenetico ed evidenza di PFO all’ecocardiogramma transesofageo; i pazienti sono quindi stati randomizzati per ricevere chiusura del PFO oppure la terapia medica, di tipo anti-aggegregante, doppia anti-aggregazione o anticoagulante. Dopo un follow-up medio di 2.1 anni, la chiusura del PFO non aveva dimostrato di essere superiore al trattamento medico per prevenire la ricorrenza di ictus secondo un’analisi intention-to-treat mentre dimostrava una superiorità all’analisi per-protocol ad as-treated.
Nel follow-up a lungo termine, la chiusura del PFO contro terapia medica determinava una riduzione significativa degli ictus, con differenza relativa in percentuale tra i due gruppi sulla ricorrenza di stroke alta (45% inferiore nel gruppo sottoposto a chiusura del PFO) ma con differenza assoluta bassa (0.49% inferiore all’anno nel gruppo sottoposto a chiusura del PFO); in una popolazione simile a quella presa in esame dal RESPECT, il numero di persone da trattare per prevenire uno stroke in un periodo di 5 anni è di 42. L’analisi per sottogruppi aveva dimostrato una superiorità della chiusura esclusivamente in PFO di grandi dimensioni (grado III), in PFO associati ad aneurisma del setto atriale e rispetto alla terapia anti-aggregante (e non rispetto alla terapia anticoagulante). Per ciò che riguarda gli effetti collaterali, nel trial RESPECT vi è stata una più alta incidenza (2.4%) di embolia polmonare nei pazienti sottoposti a chiusura del PFO.
Il terzo trial sul PFO pubblicato nel numero del NEJM è il CLOSE, che ha comparato l’efficacia della chiusura del PFO con la sola terapia antiaggregante o con terapia anticoagulante. Sono stati arruolati 663 pazienti, di età compresa tra 16 e 60 anni, con ictus criptogenetico recente (occorso cioè nei sei mesi precedenti) e diagnosi di PFO all’ecocardiogramma TEE associato ad aneurisma del setto interatriale o ampio shunt interatriale (passaggio di oltre 30 microbolle nell’atrio sinistro entro tre cicli cardiaci). I pazienti sono stati randomizzati in tre gruppi: chiusura del PFO più terapia antiaggregante, sola terapia antiaggregante o sola terapia anticoagulante. Come outcome primario è stato stabilita la ricorrenza di nuovi stroke.
Dopo un follow-up di 5 anni la chiusura del PFO è risultata più efficace nel prevenire nuovi eventi ischemici cerebrali, sia secondo un’analisi intention-to treat sia secondo un’analisi per-protocol. Il rischio di un nuovo stroke a 5 anni è risultato ridotto del 4,9% nel gruppo di pazienti assegnati alla chiusura del PFO rispetto ai pazienti assegnati alla sola terapia antiaggregante. Tuttavia, nei pazienti assegnati alla chiusura del PFO vi è stata una più alta incidenza di complicanze procedurali, in particolare di fibrillazione atriale (4,6% nel primo gruppo vs 0,9% nel secondo gruppo, P=0,02).
Il confronto tra terapia antiaggregante ed anticoagulante non ha invece fornito dati statisticamente significativi per cui, anche se il numero di eventi occorsi è risultato più elevato nel gruppo di pazienti trattati con la sola terapia antiaggregante, non è stato possibile dare alcun giudizio conclusivo.
In conclusione, i risultati del CLOSE hanno dimostrato che la chiusura del PFO è superiore rispetto alla sola terapia medica antiaggregante (ma non a quella anti-coagulante) nel prevenire la ricorrenza di ictus in pazienti tra i 16 e i 60 anni con PFO associato ad aneurisma del setto interatriale o ampio shunt interatriale; la chiusura del PFO risulta però associata ad un più alto rischio di fibrillazione atriale.
In conclusione, la questione chiusura del PFO e stroke risulta più aperta che mai. Aspettiamo con trepidazione nuovi risultati.
Valerio Brunetti, Roma Cattolica
Marisa Distefano, Roma Cattolica
Francesco Iodice, Roma Cattolica